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ERA LUIGI BERNARDI


Mi piombava addosso con una telefonata alle nove di sera, quando le persone normali cominciano a mettere in tavola. «Naspini, ho prenotato. Domani sono lì. Svegliati presto.» Perché Luigi Bernardi era mattiniero. Una cosa che ho sempre perdonato male, anche a quelli che mi stanno simpatici.

In macchina non funzionava il riscaldamento. Giravo un pezzo di Maremma a caso, e nel frattempo parlavamo. Anzi: parlavo, a quell’ora insana. Lui sembrava un totem. Restava affondato nel cappotto, lo sguardo avanti. E mi folgorava con domande inutili, tipo: «Stai scrivendo?». Nel pronunciare la risposta sentivo tremare i polsi: «Ovvio». Sennò c’è un’esistenza data ai maiali. Seguivano ettari di silenzio. Chilometri di nulla con Luigi Bernardi lì, me lì. Nemmeno una voce viva alla radio. Nemmeno un asteroide che schiantasse un dente di Toscana, tanto per togliermi dall’agonia della sospensione. Si nutriva di momenti del genere, quel signore. E pensavo: “Che testa di cazzo”. E pensavo: “Da grande voglio essere così”. Messo al muro in quel modo, alla fine buttavo fuori parole imbecilli, identiche a quelle che di solito pronunciano i mostri della società: «È una storia che parla di...». Insomma, trasgredivo a una delle regole auree di Luigi Bernardi: uno scrittore non dovrebbe mai parlare dei suoi libri. Si ritiene che sia tra le cinque cose più scoraggianti dell’universo. Porta le catastrofi. O l’indecenza di trecento like.

Una volta lo accompagnai a vedere la tomba di Calvino. È un’immagine che ogni tanto mi sorprende: lui là, con le mani ficcate nei tasconi e i baveri su, a coprirgli mezza faccia. I capelli schiaffeggiati dal vento. Io che lo guardo da una certa distanza, perché so che il momento è particolare. Ma voglio rubare per forza quel fotogramma e mi prendo a spallate con le donnine che annaffiano i mariti morti. La cosa che penso è: “Se sapessi disegnare, farei una tavola da spaccare le galassie in due”. Quando rientriamo in macchina ha un sorrisetto bugiardo, da ragazzino che nasconde qualcosa. E ancora silenzio, come i bombardamenti. Il cielo è grigio-piatto e strappato d’azzurro, da attacco di panico. Andiamo a mangiare in un ristorante di mare. Per un po’ parliamo del mio alcolismo ingenuo, che abita in un posto tra l’ira funesta, il patetico e la resilienza contro il niente. Infatti ci annoiamo presto. Poi l’argomento che infiamma il tavolino è questo: Luigi dice che è in uscita il nuovo libro di un tizio un po’ affermato. Ne ha letto una trentina di pagine in anteprima. Un giallino morto di sonno, con una trama avvincente morta di sonno. Casi da risolvere. Ispettori presi a sprangate nei denti dai cliché. Il passo è breve: si accanisce sugli autori piegati nel vuoto di una trama a orologeria, senza umanità. Esseri viventi che non conoscono la ricerca dell’imperfezione, e allora scrivono storie oliate, per appassionare i lettori anziani. Finché c’è il treno del ritorno, diretto verso l’amore e la croce della vita: Bologna. Ma di base si verifica un saluto, ovvero un atto d’intimità, quindi Luigi Bernardi si chiude. Borbotta una frase di circostanza. Dice: «Quella storiella che dicevi. Magari ne leggo qualcosa». Il tono non è convinto per niente. Il fischio del capotreno. Lui è già su. E di colpo si scuote, brutto. «Al cimitero di Castiglione c’è anche Fruttero?» dice. «Questo non me lo dovevi fare.» Le porte si chiudono. Faccio in tempo a rispondere che gli manderò uno scatto della tomba al più presto. Però è malato. Morirà prima.

Avevamo un posto nostro, che a un certo punto portammo su Facebook. Diventò un gruppo segreto: Les deux magots. È ancora lì. Due utenti. Il grosso dei nostri incontri parigini continuarono ad avvenire in quel luogo, dove la linea tra passato e presente si sfaldava, posizionandoci in un punto particolare dello spazio-tempo. Una zona d’osservazione cruciale, come il turbine che porta a Oz. Le sedie del Les deux magots venivano scaraventate per aria, e nel mulinello lampeggiavano i segni di Breton, Verlaine, Picasso, Queneau... Luci di un altro secolo mischiate all’ultimo aggiornamento di iOS, da cui registravamo gli attuali umori del mondo, Anno Domini 2012.

Ne volevamo fare qualcosa, di quelle chiacchiere. Forse un libro. Forse niente. Erano incontri combattuti che poi mettevamo in scena, per gioco o pura cattiveria. Il gesto vero sembrava questo: Luigi mi passava un testimone scomodo, spolpato dal tempo. C’era una pozza di quasi quarant’anni da riempire, dove all’inizio delle cose io nascevo, lui cominciava a buttare le mani nelle redazioni di un’Italia diversa. Mentre mi ciucciavo il dito del piede, Luigi Bernardi costruiva case editrici e riviste storiche. Cos’era successo dopo? Cercavamo le voci che avevano fotografato la trasformazione. L’idea era di uccidere tutti gli altri.

Guardavo questa specie di sessantenne con i Pearl Jam attaccati alle orecchie e la passione per gli skyline di ultima edificazione, con i vetri splendenti fino al centesimo piano. Aveva un veleno in gola stellare. Mi faceva pensare a qualcuno che ha intuito il meccanismo e sa che non può farci niente: respirare. Bere birra francese. Tanto è lo stesso. Ci butti il sangue, ma stasera ci sarà comunque qualcuno che accenderà la televisione sul quattro. La gente è misera e non legge Manchette.

Eppure non metteva la spada in tasca. Un giorno mi fece una telefonata sbilenca, delle sue. Partì con un «Naspini, so che non stai scrivendo abbastanza» (a volte ci prendeva in pieno), per poi staccare così: «Ho lasciato tutto. Da oggi penso ai miei romanzi e basta».

Sul momento mi fece specie, perché in qualche modo mi rappresentava. Mi aveva inserito in quella squadra di tizi malati di scrittura da cui forse si può cavare qualcosa, e buttava le mie robe agli editori. Arrivare sulla scrivania di qualcuno su segnalazione di Luigi Bernardi pesava. Ma ora aveva lasciato tutto. Scendeva nel mio territorio. Glielo dissi con amore: «Ti schiaccio la testa, lo sai». Lui si mise a ridere. Poi buttò giù.

C’era questa diatriba infinita su cosa fosse lo scrivere, che tipo di rogna, e quanto l’ammezzato tra il secondo e il terzo piano di un condominio qualunque rimbombasse di bimbi di quarant’anni concentrati su uno strillo preciso: manifestare sui social l’agonia del genio incompreso o in divenire. Il mondo faceva (fa) la spola dal versante amore-passione-mancanza-desiderio-seduzione raccontato con la semantica del sedicenne alfabetizzato al noir a cinque euro al chilo, frattaglie comprese. In mezzo brillavano (brillano) oggetti stupendi, come Luigi Romolo Carrino. Ci soffermavamo su elettroshock di questo tipo. Tizi che a volte scelgono lo stesso campo da gioco di certi personaggi che agonizzano all’idea di replicare il successo mondiale di un thrillerista norvegese, ma che insieme colgono l’occasione per dire altro, fare altro. Per esempio mettere in moto la macchina delle parole virali, sovversive, care a un certo tipo di creatura dalla vista accesa sulle faccende dell’esistere – fosse anche raccontare una balaustra mangiata dalla ruggine. Les deux magots era un posto bellissimo.

Io sono fatto così: se sbagli qualcosa viene giù tutto, senza repliche. Io sono lo schifo dell’universo. Eppure a Luigi Bernardi forse piaceva quest’indole dello spaccamontagne dal grilletto facile (che più banalmente è un mangiavita di una gratuità sconcertante). Se scrivevo cose che demolivano la normale percezione della realtà, mi ritrovavo con messaggi di questo tenore: “Dammene ancora”. Sbadigliava come un orso se tentavo voli obliqui fuori dalle cose che contano. Per esempio racconti fondati su meccanismi tesi alla soluzione consolatoria. Digeriva male anche gli slanci emozionali del giovanottone contrito e insofferente. Mi puliva la pelle della scrittura con colate d’acido in cui versava il solito ingrediente per niente segreto: il silenzio, ancora. Passava oltre. Ignorava. Così mi ritrovavo in mano quelle cartelle orfane, che prendevano la sostanza di un giro di campo, per allenamento. Mi toccava odiarlo per qualche ora. Alla fine aprivo un altro documento. “Fanculo, Luigi.” E giù a scrivere da capo. Oppure sparivo per qualche giorno, come una sposina impermalita. Mica mi veniva a cercare. Lo facevo io, con un mazzetto di fogli nuovi, allegati a mail vuote, senza oggetto. Monetine nel pozzo, che neanche facevano eco. In certi periodi continuavo a cadere nel nulla a oltranza. Poi, all’ennesimo scritto buttato là, capitava il miracolo: “Carino”. Allora mi tenevo lì, su quella strada. Mollavo tutto, restando aggrappato alla certa vocazione che aveva fatto breccia nel granito.

Era il suo modo, con me. E funzionava, perché epurava le lungaggini bestiali dell’ego, istigandomi alla reazione col fuoco nel sangue. Scrivevo d’ira. Bagni di lava dove mi contorcevo, ma alla fine trovavo il modo di tirare su la testa, per quel che poteva valere, e mi scoprivo in mano una penna nuova, perché sinistrata. Dopo i cazzotti ero un altro anche quando tornavo a Les deux magots. Tutto un formicolio, con le particelle ancora in fase di assestamento. Mi sedevo. A volte lo trovavo con quei dolcetti nel piattino. Roba da voltastomaco, specie la mattina, nell’ora improbabile prima del mezzogiorno. Luigi Bernardi aveva questa fissa per le torte. Gli piaceva la leccornia che gronda crema e cioccolata a litri. Per me suonava come un cortocircuito e glielo dicevo: «Non scriverai mai niente di decente, è ovvio». Lui ghignava. Abbassava la testa sull’iPad e cominciava a battere lo schermo. Potevano passare anche tre quarti d’ora prima di riavere una sottospecie di attenzione. Era bello restare sospeso in quella cosa, nel cuore caotico di Saint Germain. Quando tornava su, dal telefonino arrivava una notifica. Aprivo. Trovavo in posta pappardelle tipo questa, scritta di suo pugno:


Avevamo appuntamento due ore fa e si presenta in ritardo e come se uscisse dalla macchina del tempo, tranne per l’iPhone, che mi stupisce un po’ vederglielo usare perché non lo pensavo capace di districarsi fra programmi il più delle volte inutili e tasti così piccoli. Comunque sia, eccolo, il mio amico Sacha Naspini. Indossa una paio di jeans di cui non voglio sapere l’ultima volta che sono usciti dall’oblò di una lavatrice. Ha una maglietta nera con una bruciatura vistosa di sigaretta vicino alla spalla destra. Completano il quadro dei Ray-Ban a goccia, enormi, con il vetro a specchio, da buzzurro di prima categoria, e delle Dr. Martens che sembrano di un secolo fa. Si siede, appoggia l’iPhone sul tavolo insieme a un pacchetto di Camel Light e un accendino che mi rifiuto di descriverlo da quanto è ridicolo. Se uno è capace di portarsi dietro un accendino del genere, ha imboccato una strada senza ritorno.

Gli do un’occhiata di sbieco, è pallido. Alla mano destra ha tre anelli a fascia: all’indice, all’anulare e al mignolo. Gliene avrei visto bene uno anche al pollice, ma non glielo dico. Continuo a starmene zitto. Al polso sinistro ha una specie di Sector Expander che starà lì da prima dell’11 settembre. Che è pallido l’ho già detto, sembra anche sfiancato. Chissà che ha combinato.


Arriva subito la cameriera, qui siamo in Francia, sanno come trattare i clienti. Visibilmente non sa cosa ordinare. Se ne esce con un caffè shakerato. Già lo fanno annacquato di loro, chissà che porcheria ne uscirà miscelato con il ghiaccio. Mi bevo un sorso della mia Perrier. Controllo il flusso di dati sull’iPad. Pare una mattinata tranquilla. Bene e male nello stesso tempo. Nelle mattinate tranquille non si guadagna un cazzo, però non si perde neppure, e quindi vada come deve andare. Finalmente alzo gli occhi, lo saluto, gli chiedo se ha dormito bene. Visto lo stato in cui si trova, la mia è una provocazione bella e buona. È quello che voglio che sia.

Reagisce facendo finta di niente, per un attimo sembra interessarsi al colore del cielo di Parigi che si sta rapidamente rannuvolando come sempre succede in settembre. Cosa poi vedrà con quelle lenti lo sa solo lui. È nervoso, mi chiede se lo sto prendendo per il culo. Gli rilascio un sorriso di conferma, non lo vede perché è arrivata la cameriera con il caffè shakerato. Paga, prende l’iPhone come in trance e comincia a scrivere qualcosa. Sbaglia spesso, accompagna ogni correzione con un sbuffo che sembra quello di un torello al quale non è ancora stata concessa la prima monta. Lo vedo che ha una gran voglia di parlare, penso voglia raccontarmi cosa gli è successo da ridurlo in quello stato. Invece mi sorprende con una domanda che fino a due o tre giorni fa avrei definito idiota. Dice: «C’è quella dell’intervista. Chiede: “Per lei cosa significa scrivere?”. Ora mi sento poco bene. Al mio posto cosa diresti?».

Sono tentato di rispondergli: niente. Ma sarebbe vero solo in parte. Allora gli dico che non l’ho mai saputo. Che ho sempre avuto chiaro che non scrivo per cambiare il mondo, e trovo patetici quelli che lo affermano. Non scrivo neanche per cambiare la mia vita, o me stesso, che poi è uguale. Non me ne frega niente della fama, dei soldi, del riconoscimento dei critici. Di quello dei lettori sì, anche se non lo cerco attraverso le storie che loro vorrebbero leggere. Ho pochi lettori, crescono anno dopo anno, ma a nessuno di questi ho mai strizzato l’occhio. Più facilmente gli ho dato un pugno nello stomaco. O l’ho lasciato a libro finito, a immaginare come davvero potrebbe finire la storia, quando smetto di raccontargliela.

Recentemente però, in un libro di Emanuele Trevi ho trovato la definizione che cercavo: scrivo per rabbia. Scrivo per la rabbia che mi fanno venire tutti quei libri di merda che vedo in libreria e nella classifiche di vendita. Scrivo per rabbia verso gli scrittori, gli editori, i redattori delle case editrici e soprattutto i lettori. Scrivo le mie storie perché è più semplice che scatenare quella rabbia uccidendoli tutti. Più semplice e anche meno pericoloso.

Smetto di parlare. Naspini sembra sorpreso dalla risposta. Non lascio che si riprenda, gliela faccio io una domanda: «Non credi che dovremmo uccidere almeno un lettore, un critico, un redattore e un editore all’anno? Così, per il gusto di farlo. Io comincerei da Camilleri. È lui il responsabile di tutta la merda che ci scaraventano addosso».

Gli incontri al Les deux magots erano fatti così. Una profilassi, in un certo modo. Una bussola, per me. Guardavamo il mondo con i tempi dello scrivere, dove qualcosa si appoggia e non viene detto e basta, andando nella dispersione. In più, a volte arrivava il gesto atomico di una pubblicazione – per me o per lui era lo stesso. I germi nutriti a quel tavolo assediavano il fondale delle pagine, andando poi nel mondo, forse diventando altro. Era un segreto che ora dico qui, ma all’epoca era bello tenerlo per noi. L’illusione di diffondere un agente patogeno capace di interrompere una volta su dieci il normale flusso della realtà bastava a nutrirci. E ci sentivamo utili, perché si attivavano nuove malattie stupende, che bisognava scrivere a tutti i costi. Luigi Bernardi faceva anche questo. Ha trascorso la vita portando in superficie talenti di ogni tipo, dove oltre il contesto scenico si muoveva altro, sempre, in un gioco scellerato per screditare e insieme aumentare la realtà percepita dall’animale uomo. Odiava le rovine decadenti. Il suo sguardo era puntato avanti. Non attraversava le tempeste a testa bassa: le creava. Da dietro le quinte. Con discrezione. E cominciando la partita dalla parte giusta, dello svantaggio evidente. È un’eredità che custodisco e contemplo spesso, specie se nel vivere vengo mangiato dai cambiamenti importanti: “Vai dove ti fa più paura. Sennò cosa scrivi a fare”. Sono posti dove si possono trovare cave di bello inaspettato. O anche niente, e fa lo stesso. Sei comunque in movimento. Per riposarti ogni tanto c’è un tavolo all’aperto, sempre libero e con una cameriera gentilissima. Il portatile su una pagina bianca, che fa un rumore pazzesco, più dei bimbi frignanti di Saint Germain. Utenti attivi: uno. “Fanculo, Luigi.” E giù parole.


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